Un banale “mal di gola”?
“Dottore, ho una tracheite!”
Così mi disse un giorno, al telefono, una mia paziente che chiedeva di essere visitata per un dolore riferito “alla gola” e accentuato dalla deglutizione della saliva, comparso qualche giorno prima.
Le caratteristiche del dolore, verosimilmente faringeo (faingodinia), descritte da questa signora, apparivano, ad un’analisi superficiale, compatibili con un sintomo dichiarativo di una possibile banale infiammazione del faringe, ciò che lei stessa si azzardava a diagnosticare come “tracheite”, facendo un po’ di confusione tra faringe e trachea, e che restava solo da definire in termini causali (il motivo di quella faringite).
Stabilito questo, si sarebbe potuto procedere celermente, consigliando una terapia che avrebbe potuto prendere in considerazione farmaci antinfiammatori, antibiotici o altro.
Ciò che non mi convinse completamente, tuttavia, fu l’affermazione che lei stessa mi fece, e che riporto:
Sì, mi fa male la gola, anche quando mando giù la saliva, rispetto alle altre volte mi fa meno male “dentro” ma più “fuori”! E poi non ho tosse…
Cercai di comprendere meglio la descrizione di questo suo “mal di gola”, “strano”, ma soprattutto un po’ confuso nella descrizione e “diverso dal solito”, che certamente tendevo a escludere in termini “tracheitici”, non essendo presente la tosse.
L’ipotesi di una faringite mi pareva quella più probabile, vista la presenza di un sintomo, il dolore a deglutire, che frequentemente ad essa si accompagna.
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Quella che si sarebbe potuta considerare, quindi, era un’ipotesi di faringite, con una causa ancora tutta da definire.
Tale possibilità diagnostica, tuttavia, mi sembrava per lo meno inconsueta per quello “strano” modo di descriverne il principale sintomo, e precisamente quel dolore percepito “più fuori che dentro”.
Per questo, abituato per prudenza a valutare di persona la descrizione dei sintomi fatta dai miei pazienti, decisi di visitare la signora per accertarmi della “reale” apparente “banalità” della situazione.
Da sempre consiglio agli studenti di Medicina e agli Specializzandi delle Scuole di Specializzazione ai quali insegno durante i tirocini, che quando ci si appresta a valutare clinicamente un paziente, già conviene avere in mente un’ipotesi diagnostica (la patologia che più facilmente potrebbe giustificare la situazione), formulando la stessa sulla base di quel racconto dei sintomi fatto dal paziente (anamnesi) che, unitamente a cultura scientifica ed esperienza clinica del medico, consenta poi di confermare o escludere con la visita (esame obiettivo) e con gli eventuali esami richiesti, l’idea preliminare che già ci si era fatti del problema.
Procedendo in tale modo, è possibile confermare tutto ciò che concordi con l’idea iniziale, escludendo, invece, con intelligenza, tutto ciò che non si accordi con tale ipotesi.
Questo modo “scientificamente corretto” di procedere, evita la confusione e dà generalmente maggiori garanzie, sia in termini di precisione diagnostica, sia in termini di minore spesa economica necessaria per giungere alla diagnosi.
Le prime ipotesi
Tenuto conto di ciò, le ipotesi più probabili che avevo messo in conto all’atto della visita della signora, potevano riassumersi in quelle seguenti:
- Tracheite infettiva o allergica
Stante l’assenza di tosse e la mancanza di secrezioni catarrali (vedi “ Tosse secca o “tosse senza catarro”: il parere dello pneumologo” – “Tosse con catarro: il parere dello pneumologo“), la possibilità di ipotizzare una tracheite (processo infiammatorio della trachea) a giustificazione dei sintomi riferiti della signora, a genesi infettiva o allergica che fosse, sembrava ben distante dalla realtà e rischiava solamente di portare fuori strada.
L’ipotesi, pertanto, di un processo patologico che interessasse il primo tratto comune delle vie aeree intra-toraciche, la trachea appunto, mi sembrava scartabile senza grandi difficoltà. - Faringite infettiva
Era questa l’ipotesi diagnostica più verosimile, con un convincimento che nasceva dalla conferma di quella descrizione di un “ dolore a deglutire” che ben si conciliava con una condizione infiammatoria del faringe, sostenuta da una comune infezione batterica o virale. - Faringite allergica
L’ipotesi infiammatoria, in questo caso, manteneva comunque tutta la suggestività diagnostica di quella precedente, cambiando, di fatto, solamente l’eziologia (la causa) dell’infiammazione che, da un’ipotesi infettiva, apriva invece alla possibilità di giustificarsi con un’ipotesi allergica della quale potevano essere responsabili alcuni allergeni respiratori (pollini stagionali, acari, ecc. – vedi “Pollinosi” – “Malattie allergiche delle vie aeree”).
Incomincerò col dire che, nel momento stesso in cui iniziai a visitare la paziente, tutte le mie belle ipotesi diagnostiche evaporarono come neve al sole, in quanto, confermando ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, la necessità di visitare sempre i pazienti prima di “sparare” le diagnosi, mi si chiarì improvvisamente quella “strana” descrizione di un “dolore alla gola” più “esterno” che “interno”.
In realtà, ciò a cui si riferiva la signora, non era tanto un “mal di gola”, quanto un “male al collo” percepito esternamente, che si accentuava nel momento in cui deglutiva.
In assenza di linfonodi laterocervicali e sotto-angolo-mandibolari palpabili e di un faringe arrossato, che potessero confermare la mia ipotesi “faringitica” infettivo-allergica, la faringodinia non si rivelò assolutamente tale in quanto, il dolore a deglutire, non sembrava rappresentare la conseguenza del reciproco “sfregare” di pareti del faringe infiammate, quanto la conseguenza di una stimolazione dolorosa secondaria alla messa in tensione dei muscoli del collo e dei tessuti molli della sua loggia anteriore, che le deglutizioni provocavano.
Il dolore riferito dalla paziente, quindi, non rappresentava la conseguenza né dell’infiammazione della trachea, né di quella del faringe, in un primo tempo ipotizzate.
Il modo stesso che la signora aveva di toccarsi il collo, mostrandomi come la comparsa del dolore fosse provocato non solamente dalla deglutizione (dolore riflesso), ma anche dalla semplice pressione con le dita esercitata sulla regione anteriore del collo, mi chiarì quel “fuori” di cui parlava e al quale, prima della visita, avevo più difficoltà ad attribuire un significato.
Tiroidite acuta
Questo mi consentì di riorientarmi, da un punto di vista diagnostico, sulla base di sintomi che prima giustificavo con maggiori difficoltà e che ora, invece, mi sembravano più chiari, formulando a questo punto una diagnosi di tiroidite acuta che, sia gli esami del sangue (dosaggi ormonali) , sia l’ecografia del collo e della tiroide, consentirono poi di confermare.
La tiroidite acuta consiste in una patologia infiammatoria della tiroide, ghiandola endocrina produttrice di ormoni direttamente implicati nei processi metabolici dell’organismo.
Essa di caratterizza per l’insorgenza acuta e per alcuni sintomi, all’inizio abbastanza aspecifici e talora difficili da correlare con la patologia tiroidea, tra i quali un dolore riferito alla parte anteriore del collo.
Nella paziente del caso descritto, quindi, ciò che inizialmente sembrava doversi riferire ad un comune “mal di gola” tracheitico, poi corretto in “faringitico” dalla confusa descrizione del dolore che compariva con la deglutizione, era in realtà più precisamente da ricondurre ad una tiroidite, ben diversa, per le implicazioni prognostiche e terapeutiche che comportava, da quella “banale” faringo-tracheite che sembrava erroneamente giustificare i sintomi dichiarati dalla signora.
L’importanza della valutazione della situazione clinica della persona
Ancora una volta, quindi, si confermava quella necessità di procedere, in ogni caso, con quell’accurata valutazione della situazione clinica della persona che predico da sempre, che ricomprenda nella stessa la visita del paziente (esame obiettivo).
Ritengo che questo rappresenti l’unico modo veramente corretto di procedere, che garantisca specialista ed ammalato dal rischio di una sopra- o di una sotto-valutazione dei sintomi, ma che soprattutto eviti di dare per scontati certi aspetti clinici e sintomatologici apparentemente “ovvi”, che in realtà tali potrebbero non essere.
E’ proprio dall’eccesso delle “certezze” assolute del medico, ancor più se gestite in modo poco critico, che nascono spesso i peggiori errori diagnostici.
Quelli che rischiano di non essere scoperti e corretti per tempo, in quanto fondati su quella falsa e pericolosa presunzione di una diagnosi “indiscutibilmente” logica ed “incontestabilmente” assoluta che, non ammettendo repliche, incautamente rende difficile quella più intelligente e salvifica rivalutazione del caso clinico in grado di limitare i danni.
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