Ho più volte sottolineato, in questo sito, la grande importanza che attribuisco all’attività fisica e mentale e più in generale alle attività umane praticate allo scopo di ridurre i sintomi dei pazienti affetti da broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) e da malattie respiratorie croniche (asma bronchiale, bronchite cronica, enfisema polmonare, bronchiectasie, ecc.), pubblicando articoli dedicati a questi temi che ritengo indispensabili, al pari almeno delle terapia farmacologiche prescritte:
- “Attività fisica e benessere respiratorio: i consigli dello pneumologo”
- “BPCO e vita attiva: i consigli dello pneumologo”
- “Bronchite cronica e regole di vita: lo pneumologo e la terapia oltre i farmaci”
- “Esercizi respiratori per pazienti con BPCO: la ginnastica consigliata dallo pneumologo”).
Ho in diversi articoli richiamato l’attenzione su quanto sia importante considerare il disagio respiratorio all’interno di una cornice di riferimento che preveda l’uomo non come una semplice macchina biologica solo “fisica” e passiva, ma come attivo creatore di emozioni capaci di dar corpo ai disagi della malattia:
- “Disturbi respiratori a base ansiosa e depressiva”
- “Asma psicosomatico: il parere dello pneumologo”
- “Ammalato e malattia”
- “ Uno strano disturbo respiratorio: il caso di Marina”).
Visita Pneumologica
Che cos’è (e come viene fatta)?
Scopri tutte le fasi della visita specialistica e come il Dott. Enrico Ballor valuta il paziente per il disturbo che presenta.
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Prendo spunto dai dati di un recente studio dell’All India Institute of Medical Sciencesdi New Delhi, presentati nel corso di un meeting internazionale (CHEST 2015), per confermare quanto già più volte da me sostenuto che non c’è medicina più grande, per controllare il disagio respiratorio e le conseguenze negative da esso prodotte sulla quotidianità del paziente con malattia respiratoria cronica, se non quella del prendersi cura anche degli stati interni della mente fino a modificarne in meglio le percezioni anomale derivanti dalla malattia.
Non c’è medicina più grande di prendersi cura anche degli stati interni della mente.
E non c’è modo migliore per ottenere ciò, se non tenere il paziente in attività con ginnastiche specifiche o con ogni altro tipo di attività motoria e mentale in grado di ridurre l’ansia.
In tal modo si evita al paziente di rimanere imprigionato nel suo disagio respiratorio, minimizzando le conseguenze negative che lo stesso rischia di accusare sui suoi spazi di libertà e sulle sue reali possibilità di socializzazione.
Nello studio che ho citato sopra, infatti, si evidenzia la sovrapponibilità dei risultati ottenuti con un ciclo di riabilitazione respiratoria, secondo schemi di fisiokinesiterapia respiratoria classica, o con un programma di Yoga proposto ai pazienti con BPCO da un esperto in tale disciplina, dimostrandosi i due diversi approcci ugualmente efficaci a garantire una riduzione misurabile del disagio respiratorio.
Nei pazienti con BPCO che hanno seguito un percorso guidato di Yoga della durata di 12 settimane, infatti, viene riportato un miglioramento del test del cammino (6MWT) ed una minor percezione della difficoltà respiratoria (scala della dispnea), rimanendo invece immodificati i parametri funzionali respiratori valutati con la spirometria.
Ciò significa che, in assenza di dimostrate differenze funzionali spirometriche tra prima e dopo, il ciclo di Yoga sembra dimostrare la sua capacità di ridurre il disagio respiratorio al pari di un programma riabilitativo classico, agendo non certamente su caratteristiche anatomo-funzionali che non vengono modificate (i dati della spirometria non variano prima e dopo il ciclo), ma con ogni probabilità su quella nuova capacità acquisita dal paziente che, reso meno ansioso dal percorso di Yoga, percepisce la malattia come meno “nemica” e invalidante e di conseguenza più tollerabile.
Ancora una volta, smettendo di considerare l’uomo come un prodotto esclusivamente fisico e “oggettivo” e la malattia come una sorta di “avaria meccanica” dello stesso, diviene assai più facile comprendere la bontà di risultati anche non farmacologici ottenuti con interventi che rispettino il diritto della persona di veder curati anche quegli stati ansiosi e dell’umore, molto spesso banalizzati, che nel loro insieme rendono spesso meno sopportabile la malattia.
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