Dott. Enrico Ballor – Pneumologo Torino
Terapie e Consigli

Ossigenoterapia, Anidride Carbonica (CO2) e Coma: i Sintomi dell’Ipercapnia

“Dottore, è vero che se faccio troppo ossigeno vado in coma e rischio di morire? … per l’anidride carbonica? …. “.

Anidride carbonica (CO2) e rischio di morte.

Un gas presente in quantità minima nell’atmosfera che può, in certi casi, rendersi responsabile di situazioni pericolose.

Quali?

Esiste tutta una nutrita schiera di malattie respiratorie, la maggior parte delle quali ad andamento cronico, che prevede tra le complicazioni delle fasi finali l’insufficienza respiratoria, situazione clinica a proposito della quale ho già scritto in diversi articoli pubblicati nel sito.

Ma che cosa lega la necessità di sottoporsi all’ossigenoterapia (vedi “L’ossigenoterapia domiciliare spiegata dallo pneumologo”), in pazienti affetti da patologie respiratorie che rendano difficoltoso il normale trasferimento dell’ossigeno atmosferico al sangue, al rischio di andare incontro ad un pericoloso aumento dei valori della CO2?

E perché la quantità di questo gas può divenire tanto elevata nel sangue da determinare un vero e proprio pericolo per la vita?

Andiamo con ordine e cerchiamo di capire.

Ricordo rapidamente come la funzione dei polmoni e, più in generale, la funzione respiratoria (vedi “Respiro, polmoni, globuli rossi ed emoglobina: lo pneumologo e la storia della respirazione”), consista nel permettere all’ossigeno presente nell’aria di essere trasferito al sangue, raggiungendo in tal modo tutti quei tessuti e quegli organi che lo richiedano per i processi metabolici delle loro cellule, consentendo, al contempo, alla CO2 prodotta dal metabolismo cellulare, quel percorso inverso (sangue → aria espirata) che le permette di liberarsi nell’ambiente esterno, evitando in questo modo il rischio di un pericoloso accumulo nel corpo.

Questa doppia funzione di scambio dei gas tra atmosfera e sangue (O2 in un senso e CO2 nel senso opposto) rappresenta la principale giustificazione biologica alla presenza dell’apparato respiratorio creato dall’evoluzione.

Date queste premesse, è possibile definire “insufficiente” la funzione respiratoria (insufficienza respiratoria), ogni qual volta una qualsiasi patologia impedisca all’organismo di approvvigionarsi della necessaria quantità di O2 (insufficienza respiratoria ipossica o ipossiemica tipo I), o non consenta, altresì, di eliminare una sufficiente quantità di CO2, gap che in questo modo viene contemporaneamente a sommarsi al già presente deficit di ossigeno circolante (insufficienza respiratoria ipercapnica tipo II).

La CO2 della quale si parla in questo caso, quindi, non è certo quella presente in minima quantità nell’atmosfera (meno dell’1%), ma è quella prodotta dal nostro stesso organismo, nel corso di quei processi biochimici indispensabili a consentirci la vita.

Tra le molte patologie respiratorie che, in molti casi, possono evolvere e aggravarsi fino a determinare una condizione di cronica insufficienza funzionale dei polmoni, ve ne sono alcune, tra le quali la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), nel corso delle quali è necessario prestare una grande attenzione alla quantità di ossigeno che viene somministrato al paziente affetto da insufficienza respiratoria, sia in termini di flusso d’ossigeno erogato dalla bombola, sia in termini di quantità di ore di trattamento.

Quale sia il motivo è presto spiegato.

Il nostro cervello possiede delle vere e proprie “centraline elettroniche” preposte al controllo delle diverse quantità di O2 e CO2 presenti nel sangue.

Esse sono in grado di monitorare costantemente il livello di questi due diversi gas, ma operano, come vedremo dopo, in modo differente nell’uno o nell’altro caso.

Intendo dire che diverso è il modo in cui il cervello valuta le due diverse quantità di O2 e CO2, procedendo, più precisamente, nel seguente modo:

  • nel caso dell’ossigeno, esso è in grado di operare una valutazione “assoluta” della presenza di questo gas in circolo, misurandone in modo relativamente preciso la quantità presente nel sangue.
    In risposta ad una bassa quantità di ossigeno rilevato in circolo, esso diviene in grado di “ordinare” ai muscoli respiratori di incrementare la velocità degli atti respiratori al minuto (tachipnea) e la stessa maggiore o minore espansione dei polmoni (iperpnea), determinando, con un’adeguata combinazione della tachipnea e dell’iperpnea, quell’aumento della quantità globale di aria scambiata dai polmoni nell’arco di un minuto (polipnea) che tenta di correggere l’ipossia (scarsa quantità di O2).
  • nel caso dell’anidride carbonica, invece, il cervello non è in grado di rilevare la quantità assoluta di CO2 presente nel sangue, limitandosi ad “accorgersi” che il livello della stessa “sta salendo” o “sta scendendo”, apprezzando una differenza per “gradienti” nel tempo o “delta” (Δ).
    Per spiegare meglio questo concetto, posso riferirmi a ciò che è in grado di fare il cervello rispetto alla “luminosità”.
    Esso non è in grado di stimare in termini assoluti una certa quantità di luce, quantificandone con precisione il livello assoluto raggiunto, ma è invece in grado di accorgersi che la luminosità aumenta o diminuisce, a patto che tale variazione avvenga in tempi sufficientemente rapidi da far si che il fenomeno possa essere percepito.
    Il problema, tuttavia, di questo meccanismo di controllo meno “perfetto” e sofisticato rispetto al precedente, fa si che, come non posso definire che la scena è luminosa “10”, o “1000”, ma posso invece accorgermi che è più o meno luminosa rispetto ad un’intensità luminosa precedente o successiva, così per la CO2 il cervello è in grado di apprezzare che la quantità di questo gas sta salendo o sta scendendo, a patto che tali variazioni avvengano in tempi abbastanza rapidi.
    In altre parole, se la quantità di CO2 inizia a salire molto lentamente, il limite di questo sistema di controllo fa sì che il paziente raggiunga valori molto elevati di CO2, senza che il cervello se ne accorga.
    In questo modo il livello di questo gas rischia di raggiungere quantità assolute anche molto elevate, tali da determinare il coma e la morte del paziente (coma ipercapnico), senza che il cervello sia in grado di rilevare la situazione di pericolo.

Resta da capire, a questo punto, perché il livello di CO2, in un paziente in ossigenoterapia, debba ad un certo punto incominciare a salire, determinando il rischio di un coma ipercapnico.

Immaginiamo un paziente che presenti una condizione di insufficienza respiratoria ipossica di tipo I che, come detto, consiste nel solo deficit di O2 in circolo.

In questo caso, la scarsità dell’ossigeno viene letta dal cervello in termini assoluti, determinando quell’immediata messa in atto del meccanismo di compenso visto prima (polipnea), in grado di aumentare la velocità degli atti respiratori e la maggiore espansione dei polmoni che corregge l’ipossia.

Ma immaginiamo, a questo punto, di iniziare a trattare il nostro paziente con l’ossigeno, somministrandone una quantità tale da consentirgli di uscire dalla situazione di insufficienza respiratoria nella quale si trova.

In questo caso, poiché il cervello “sente” che qualcosa è cambiato e che finalmente la quantità di ossigeno è tornata sufficiente, venendo meno la necessità di mantenere il meccanismo di compenso di cui si è detto prima (polipnea), da ordine ai muscoli respiratori di cessare di respirare a frequenza più elevata e con respiri più profondi, in quanto non più necessario.

Questa caduta della ventilazione polmonare, tuttavia, che in modo automatico porta il paziente a respirare “di meno”, diviene responsabile di una riduzione del ricambio d’aria all’interno dei polmoni (ipoventilazione alveolare) che, se non determina un calo dell’ossigeno nel sangue in quanto “artificialmente” aggiunto dall’esterno, causa invece un progressivo accumulo nei polmoni, e di conseguenza in circolo , di CO2 non più smaltita in modo adeguato.

La lentezza, inoltre, con la quale i valori dell’anidride carbonica tendono a salire, per quanto detto prima a proposito delle capacità di controllo che il cervello ha sulla quantità di CO2 presente nel sangue, fa si che il livello complessivo di questo gas tenda progressivamente ad aumentare senza che il cervello ne venga informato, raggiungendo valori tali da determinare, in un primo tempo, sintomi caratteristici e, successivamente, una situazione di coma (coma ipercapnico) che può evolvere fino alla morte dell’individuo.

Si badi, quindi, sempre con molta attenzione, nel caso in cui il paziente sia in terapia con ossigeno per un’insufficienza respiratoria, all’eventuale comparsa dei sintomi premonitori che, in molto casi, possono annunciare il rischio di ipercapnia (aumento della CO2) e l’eventuale comparsa dello stato di coma. Tra questi:

  • cefalea: avente spesso un carattere “pulsante”, più frequente al risveglio per il progressivo incremento della CO2 durante il riposo notturno, è riferita più frequentemente a sede occipitale e, meno spesso, a sede fronto-occipitale o bi-temporale .
    E’ forse il più comune e frequente sintomo, che deve fare sospettare la possibilità di un pericoloso aumento progressivo della CO2 in circolo.
  • arrossamento congiuntivale specie al risveglio: lo stesso effetto vasodilatatore della CO2 responsabile della cefalea vista prima, può divenire responsabile anche di quest’altro sintomo altamente evocativo d’ipercapnia (congiuntivite ipercapnica).
    La vasodilatazione persistente, inoltre, può determinare, specie nei pazienti con ipercapnia cronica, addirittura un esoftalmo (sporgenza anteriore del globo oculare), legata alla durevole congestione e dilatazione dei vasi sanguigni dell’orbita provocata dalla CO2, con conseguente cronica imbibizione dei tessuti molli perioculari (edema orbitario).
  • sonnolenza: spesso questo sintomo è presente al risveglio, con persistenza fin dal mattino di uno stato soporoso e della percezione di un sonno non riposante o di un sensazione di “testa piena”.
  • stato confusionale e rallentamento ideo-motorio: specie presenti al risveglio, con sedazione eccessiva (carbonarcosi o encefalopatia ipercapnica) e stato confusionale più o meno intenso, rappresentano segni altamente evocativi e mai da sottovalutare, che qualcosa non va sul fronte della CO2.
    In qualche caso, nelle situazioni più evolute, possono comparire veri e propri episodi di confusione temporo-spaziale, con evidente difficoltà del paziente a orientarsi nello spazio e a individuare luoghi (disorientamento spaziale), spesso associato a difficoltà ad orientarsi nel tempo (disorientamento temporale).
  • turbe neuro-psichiche: instabilità emotiva di recente comparsa e particolare irritabilità, possono spesso associarsi alla condizione ipercapnica, specie quando i valori della CO2 nel sangue arterioso (emogasanalisi) superano i 70 mmHg di pressione parziale di gas disciolto.
    Tra i disturbi dell’umore di questa fase tendono a prevalere le forme depressive.
    Coesistono, spesso, un rapido deterioramento della capacità di mantenere l’attenzione e la concentrazione sui compiti da svolgere, oltre ad un progressivo deficit della memoria, specie di quella a breve termine.
    Si tenga presente che il coma ipercapnico (vedi sopra) tende a comparire per valori di CO2 compresi tra 75 e 100 mmHg, con un’ampia variabilità individuale di questo intervallo.
  • movimenti involontari: consistono in piccole scosse muscolari spontanee e spesso ripetute, delle dita e degli arti (miocloni) o in tremori di ampiezza maggiore delle estremità, evocati nel corso del mantenimento degli arti superiori sollevati e mantenuti a dita estese in estensione dorsale, con comparsa di ampi tremori in flesso-estensione cosiddetti a “battito d’ali”, simili ai “flapping tremors” (asterixi o asterissi) delle condizioni di iperammoniemia degli epatopatici.
  • disgrafia: corrisponde alla comparsa di una scrittura lenta e tremante, spesso tanto alterata nel segno grafico da divenire difficilmente leggibile.
  • iperidrosi e ipersecrezione di secreti organici: consiste in un aumento talora marcato della sudorazione, della salivazione (scialorrea), della produzione di secreti bronchiali (broncorrea o ipersecrezione bronchiale) e delle secrezioni cloro-peptiche dello stomaco (ipersecrezione gastrica), con comparsa di pirosi (“bruciore di stomaco”) da reflusso gastro esofageo (vedi “BPCO e reflusso gastro-esofageo: i consigli dello pneumologo” – “Tosse, catarro e reflusso gastro esofageo: il parere dello pneumologo”) e possibile patologia ulcerosa dello stomaco e del duodeno, talora causa di emorragie digestive favorite dal concomitante uso di cortisonici, spesso usati nella terapia di questi pazienti.
    Tutte le precedenti condizioni consistono in fenomeni riconducibili all’acidosi respiratoria che s’instaura in corso d’ipercapnia (aumento della CO2).
  • anoressia: la rapida comparsa di anoressia (mancanza dell’appetito), o di iporessia (diminuzione dell’appetito), si associa frequentemente ad un repentino peggioramento dell’insufficienza respiratoria, specie di quella ipercapnica.

Al fine di evitare le situazioni di grave pericolo illustrate sopra, il consiglio è quello di valutare sempre con attenzione ogni più piccolo indicatore di evoluzione ipercapnica, segnalando allo pneumologo gli eventuali dubbi o il modificarsi della condizione clinica in divenire del paziente.

Senza volersi sostituire allo specialista, la possibilità di una tempestiva segnalazione di sintomi e di segni sospetti, può consentire allo pneumologo di attivare tutta una serie di strategie atte a evitare il peggio.

Tra queste, dopo un’attenta valutazione specialistica del paziente da parte del medico, che non si limiti solamente a misurare la saturazione dell’emoglobina con l’ossimetro in grado di rilevare il deficit di ossigeno ma non i pericolosi aumenti della CO2, ma che preveda anche un’emogasanalisi arteriosa, unico esame in grado di individuare queste situazioni di pericolo, la possibilità di avviare precocemente il paziente alla ventilazione non invasiva (NIV) con apposito ventilatore domiciliare (vedi “C-PAP, Bi-PAP (Bi-Level), ventilazione non invasiva (NIV): dallo pneumologo un aiuto alla respirazione”).

Si badi sempre, inoltre, nel corso delle misurazioni con l’ossimetro, a prestare fede ai limiti della metodica, previsti e impliciti in questo tipo di valutazione clinica (vedi “Saturazione dell’ossigeno e dita fredde: lo pneumologo e il buon uso dell’ossimetro”).

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